L’anno 1945 vide la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’Europa era in rovina, con milioni e milioni di profughi che vagavano per il continente, ex-deportati affamati e traumatizzati, che in qualche modo tentavano di tornare a casa, nella speranza di ritrovarla integra.[1] In Alto Adige la resa della Germania nazista nel maggio 1945 non segnò solamente la fine della guerra, ma anche la fine di quell’agonia iniziata nel 1922 con la presa di potere da parte dei fascisti, giunta poi al suo tragico apice nel 1943 con l’arrivo delle truppe tedesche. In questo particolare momento storico Hubert Winnischhofer trascorse i primi 25 anni della sua vita.
Hubert era nato il 3 ottobre 1921. Suo padre era Robert Winnischhofer, originario di Merano, trasferitosi in Bassa Atesina prima del 1914 per lavorare nell’azienda della signora Kreszenz Pramstrahler. È stato uno degli ultimi lattonieri e vetrai di Ora. Gestiva anche un negozio di articoli casalinghi, aperto nel 1928 con sua moglie Kreszenz Waldthaler, e un distributore di benzina, il primo tra Bolzano e Trento.
Hubert aveva due fratelli e una sorellastra. Il maggiore, Robert, frequentava il Johanneum a Tirolo dove, nonostante la politica di italianizzazione fascista, le lezioni si tenevano in tedesco.[2] Ma era una scuola molto costosa, così che solo uno dei fratelli ebbe la possibilità di studiare. Gli effetti della Grande Depressione del 1929 colpirono molte famiglie altoatesine: tante aziende fallirono, svariati masi andarono all’asta a prezzi stracciati,[3] beni di prima necessità divennero un lusso. Immaginiamoci la gioia di Hubert quando, terminato finalmente il suo apprendistato come calzolaio, riuscì a mettere da parte i soldi necessari per l’acquisto di una bicicletta tutta sua.
Nel 1939, la famiglia Winnischhofer optò per la Germania ma, come molti, non lasciò mai il paese. Divennero cittadini tedeschi e Hubert fu arruolato in un’unità speciale per la guerra di montagna. All’epoca i ragazzi altoatesini furono spesso mandati in quota, perché erano bilingui, sapevano sciare e arrampicarsi sulle rocce: abilità molto richieste in alta montagna.[4] Svolse il suo periodo di addestramento presso l’unità speciale “Brandenburg”, ma Hubert non resse: passò a un reparto di fanteria e nel 1941 raggiunse il fronte orientale, arrivando in Francia dalla Baviera. Il suo compito era quello di individuare le postazioni nemiche in sella e una bicicletta, per poi segnalarle all’ufficiale in carica. I tedeschi avanzarono velocemente, fino all’arrivo dell’inverno. Le basse temperature resero difficile qualsiasi attività e Hubert dovette essere ricoverato in ospedale a causa di gravi congelamenti. Per fuggire al freddo, dopo la guarigione decise di andare come volontario in Africa, dove combatté sotto il comando del feldmaresciallo Erwin Rommel.
Ma anche questa missione fallì: nel 1943 i tedeschi si arresero in Tunisia. Hubert finì nelle mani degli americani che lo imbarcarono su una nave da carico diretta a New York. Giunto negli Stati Uniti, il suo viaggio proseguì fino in Mississippi, nel campo di prigionia “Camp Shelby”. Stando alle stime, in quegli anni furono oltre 371.000 i prigionieri di guerra tedeschi internati oltreoceano.[5] Hubert ricevette un’uniforme con la scritta “PW” – prisoner of war – e fu impiegato nella raccolta di cotone e arachidi. Le condizioni di vita non erano male; in seguito avrebbe raccontato alla sua famiglia, che i prigionieri ricevevano abbondanti porzioni di carne e addirittura cioccolata.
Le autorità statunitensi organizzarono persino una serata col premio Nobel per la letteratura Thomas Mann.
Per certi versi, i prigionieri europei vennero trattati meglio dei soldati afroamericani responsabili della loro supervisione.[6]
Mentre Hubert era in America, l’8 settembre 1943 le truppe tedesche occuparono l’Alto Adige, stabilendo la “Operationszone Alpenvorland”, la zona di operazione delle prealpi. La notte seguente, a Ora ci fu una sparatoria mortale che vide coinvolti alcuni soldati tedeschi e diversi uomini del 6° reggimento alpino di stanza in Casa Braito, in Via del Capitello.[7] Il terrore nazista, l’arruolamento forzato dei Dableiber – cittadini italiani –, torture e angherie furono all’ordine del giorno, per non parlare dell’orrore del campo di transito di Bolzano, da cui partirono almeno sette trasporti di prigionieri verso Mauthausen e Auschwitz. Gli alleati iniziarono a bombardare l’Alto Adige e la vicinanza di Ora alla tratta ferroviaria del Brennero causò immensi danni. Il paese fu bombardato un centinaio di volte, motivo per cui prese il soprannome di “inferno della Bassa Atesia”.[8] Ci furono i primi moti di resistenza nei confronti del regime nazista e la Repubblica Sociale Italiana. In Alto Adige la Resistenza non ebbe mai la stessa diffusione come in altre zone d’Italia ma, nonostante ciò, l’Andreas-Hofer-Bund e la sezione bolzanina del Comitato di Liberazione Nazionale svolsero un ruolo importante nella ripartenza democratica dell’Alto Adige dopo il 1945.[9]
Nel frattempo, Hubert era ancora imprigionato a migliaia di chilometri di distanza. Nel 1946 gli americani lo consegnarono all’Inghilterra, dove per un anno lavorò in una miniera di carbone scozzese. Fu poi liberato in Carinzia, allora occupata dai britannici. Attraversò clandestinamente il confine e, dopo sette lunghi anni, riuscì a tornare a casa sua, a Ora. Indossava ancora l’uniforme con la scritta “PW”. Appena arrivato, volle subito vedere la sua amata bicicletta, ma sua madre l’aveva venduta per comprarsi qualcosa da mangiare.
Ora ricorda Hubert Winnischhofer come calzolaio e proprietario di un negozio di scarpe, che gestiva insieme alla moglie Martha Glöggl. Ebbero due figli: Herbert e Edith. La sua vita movimentata, trascorsa a cavallo di tre continenti, si è conclusa pacificamente nel 1994.
1] Rebecca Boehling, Susanne Urban, René Bienert (ed.), Freilegungen: Displaced Persons – Leben im Transit. Überlebende zwischen Repatriierung, Rehabilitation und Neuanfang, Wallstein Verlag, Göttingen 2014.
[2] Gottfried Solderer (ed.), Das 20. Jahrhundert in Südtirol, vol. 2, Edition Raetia, Bolzano 1999, 77-80.
[3] Ibidem, 143.
[4] Thomas Casagrande, Südtiroler in der Waffen-SS. Vorbildliche Haltung, fanatische Überzeugung, Edition Raetia, Bolzano 2016, 64.
[5] Matthias Reiß, „Die Schwarzen waren unsere Freunde“. Deutsche Kriegsgefangene in der amerikanischen Gesellschaft 1942-1946, Ferdinand Schöningh, Paderborn 2002, 11.
[6] Idem.
[7]Josef Fontana, Das Südtiroler Unterland, Verlagsanstalt Athesia, Bolzano 1980, 248.
[8] Heinrich Lona, Auer im Südtiroler Unterland, Verkehrsverein Auer, Trento 1977, 188-189.
[9] Solderer, Südtirol, op. cit., vol. 3, 49.
Boehling, Rebecca/Urban, Susanne/Bienert, René (ed.), Freilegungen: Displaced Persons – Leben im Transit. Überlebende zwischen Repatriierung, Rehabilitation und Neuanfang, Wallstein Verlag, Göttingen 2014.
Casagrande, Thomas, Südtiroler in der Waffen-SS. Vorbildliche Haltung, fanatische Überzeugung, Edition Raetia, Bozen 2016.
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Krammer, Arnold, Die internierten Deutschen. „Feindliche Ausländer“ in den USA 1941–1947. Universitas Verlag, Tübingen 1998.
Lona, Heinrich, Auer im Südtiroler Unterland, Verkehrsverein Auer, Trient 1977.
Reiß, Matthias, „Die Schwarzen waren unsere Freunde“. Deutsche Kriegsgefangene in der amerikanischen Gesellschaft 1942-1946, Ferdinand Schöningh, Paderborn 2002.
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Solderer, Gottfried (ed.), Das 20. Jahrhundert in Südtirol, 4 Voll., Edition Raetia, Bozen 1999.
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